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A proposito di Covid-19: contagio e malattia non sono sinonimi

“… I germi che causano le malattie infettive possono appartenere a diverse categorie e principalmente a virus, batteri o funghi. … Per contrarre una malattia infettiva, l’individuo deve essere esposto al germe e trovarsi in uno stato di suscettibilità, cioè quando non ha difese (naturali o acquisite) contro lo specifico agente infettivo. Per prevenire una malattia infettiva, si può agire sul contatto o sulla suscettibilità: la rimozione di una delle due cause rende l’altra incapace di provocare la malattia. …”

Queste parole, tratte da Epicentro Il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica a cura dell’Istituto superiore di sanità https://www.epicentro.iss.it/infettive/, sono chiarissime: entrare in contatto con un virus, un batterio o un altro patogeno non vuol dire automaticamente ammalarsi; occorre che il contagiato sia anche in uno stato di suscettibilità, cioè che non abbia difese contro l’aggressore di turno.

Per prevenire una malattia infettiva possiamo quindi agire riducendo sia la possibilità di contatto con l’agente patogeno, sia la suscettibilità ad esso. Ridurre la possibilità di contatto con il Covid-19 è ciòche stiamo già facendo rispettando il distanziamento sociale, le norme igieniche e utilizzando i dispositivi di protezione individuale.

Siamo peraltro tutti d’accordo sull’utilità di queste misure: un nemico potenzialmente letale è sempre meglio non incontrarlo. Sappiamo pure tutti, però, che se dovessimo incontrarlo la migliore garanzia di uscirne bene risiederebbe nel risultare non suscettibili al virus.

Si può indurre uno stato di non suscettibilità?

Con un vaccino efficace sì, potremmo riuscirci in buona parte della popolazione; ma visto che un vaccino ancora non l’abbiamo, non c’è niente che possiamo tentare su questo fronte? I soggetti contagiati dal Covid-19 ma non suscettibili, quelli cioè che in questi giorni di pandemia abbiamo imparato a conoscere come “positivi asintomatici”, se da un lato costituiscono un problema sanitario perché possibile fonte di trasmissione del virus, dall’altro sono la prova che contagio non significa obbligatoriamente malattia. Cos’è che rende asintomatico un contagiato? Senza dubbio l’efficienza delle difese di cui questi dispone; difese che, nel momento del contatto con l’agente patogeno e nei giorni immediatamente successivi, sono necessariamente quelle immediate e aspecifiche dell’immunità innata, perché le difese dell’immunità acquisita, specifiche e provviste di memoria, vengono approntate soltanto successivamente (nel Covid-19, ad esempio, uno studio recente ha dimostrato che la risposta anticorpale si sviluppa entro 17-19 giorni).

Ora, l’efficienza dell’immunità innata, ma anche di quella acquisita, non sono caratteristiche indipendenti, precostituite e invariabili; variano col variare di molti parametri dell’individuo inclusi quelli nutrizionali.Siamo a conoscenza, ad esempio, del ruolo fondamentale esercitato nei processi immunitari da alcuni nutrienti essenziali (ad esempio le vitamine A, C, D) e dei problemi infettivi che la loro carenza, anche sub-clinica, può comportare. Carenze di questo genere non sono infrequenti, specie tra gli anziani fragili; dovremmo correggerle, se non vogliamo lasciare chi ne soffre in una situazione di handicap potenziale contro qualsiasi patogeno, Covid-19 incluso.

È questo, quindi, un possibile livello di intervento per ridurre la suscettibilità a contrarre le malattie infettive. Un altro possibile livello di intervento è rappresentato da due sostanze chiave dell’immunità innata: la lattoferrinae il lisozima.

Presenti fisiologicamente nelle secrezioni delle mucose (saliva, lacrime, muco eccetera), hanno una riconosciuta attività antivirale, oltre che antibatterica, e la loro concentrazione si riduce progressivamente col passare degli anni.

L’immunità innata è stata chiamata in causa anche per spiegare come mai i bambini contagiati dal Covid-19 non sviluppino la malattia nella grande maggioranza dei casi.

Ora, noi sappiamo che la lattoferrina e il lisozima sono presenti in concentrazioni sensibilmente maggiori proprio nella giovane età: è soltanto una coincidenza?

La lattoferrina, poi, inibisce la catepsina L, un enzima proteolitico che sperimentalmente favorisce la penetrazione intracellulare del Covid-19 (la catepsina L è presente all’interno di particolari organuli cellulari denominati lisosomi).

Per contrastare i processi che dal contagio conducono alla malattia, quindi, ci sono vie che possono essere perseguite, vie che a mio avviso bisognerebbe tenere in considerazione specie quando un vaccino non è disponibile, com’è nel caso del Covid-19.

Eppure, in giorni e giorni di notizie e informazioni continue non ho sentito una parola su strategie terapeutiche preventive di questo tipo. Anzi, relativamente all’uso della vitamina C a scopo protettivo, ad esempio, ho letto che non ci sono evidenze che questa sostanza abbia un’azione sul virus. Non ne ha, è vero, ma non mi sembra questo il punto, tenuto conto che la vitamina C non ha capacità virucide intrinseche.

In oltre 37 anni di professione medica sono stato testimone di pazienti cui questa sostanza ha cambiato la storia clinica: soggetti che prima di assumerla si ammalavano frequentemente di patologie virali o batteriche, dopo averne iniziato l’assunzione hanno smesso di farlo. Quando esercita la sua azione preventiva contro problematiche di tipo infettivo la vitamina C non lo fa direttamente ma per via mediata, grazie ai suoi molteplici effetti favorevoli sulsistema immunitario.

Altrettanto vale per le vitamine A e D.

Penso che il motivo del disinteresse prima descritto origini dal ritenere che la prevenzione della suscettibilità ai patogeni si risolva unicamente nella ricerca, pur fondamentale, dei relativi vaccini.

Ma i vaccini, lo sappiamo tutti, funzionano tramite la risposta immunitaria che sono in grado di innescare. Ciò ha una conseguenza ineludibile: la risposta immunitaria da cui dipende l’utilità della vaccinazione dipende, a sua volta, dallo stato del sistema che la genera.

Un vaccino è un po’ come un libretto di istruzioni: se chi deve eseguire l’opera non ha gli attrezzi o i materiali giusti, il lavoro non risulterà conforme alle attese.

È noto, d’altra parte, che nell’età avanzata il complesso dei cambiamenti cui va incontro il sistema immunitario (immunosenescenza) rende i vaccini meno efficaci; anche la disponibilità di alcune vitamine sembra influenzare l’immunogenicità e l’efficacia delle vaccinazioni.

Emerge, così, che il perseguimento del corretto funzionamento del nostro sistema difensivo dovrebbe essere un obiettivo prioritario, quando si parla di prevenire le malattie infettive attraverso la riduzione della suscettibilità al contatto.

Una strategia preventiva che riduca la suscettibilità ai patogeni puntando a migliorare in maniera generale l’efficienza immunitaria non presenta alcuna incompatibilità: può affiancare le misure volte a contenere l’esposizione al contatto, può almeno in parte supplire al vaccino, quando non c’è, o può incrementarne l’efficacia, se invece è disponibile.

Dr. Mauro Todisco

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