La Cronodieta: “quando mangiare cosa” per dimagrire
Da qualche tempo, specie dopo che il Nobel 2017 per la medicina è stato assegnato agli scienziati scopritori del funzionamento dell’orologio biologico, le voci che parlano dell’influenza di quando si mangia sul metabolismo sono diventate così numerose da far sembrare questa relazione quasi scontata, tanto appare naturale. Ma non è stato sempre così; tutt’altro.
Nel 1991, quando pubblicai per i tipi dell’editore milanese Tecniche Nuove “La Cronodieta, far dimagrire scegliendo gli orari per i pasti e le combinazioni alimentari”, quel libro era l’unica voce presente, al riguardo. Nel volume, destinato a un pubblico di medici e di addetti ai lavori, descrivevo perché era preferibile un programma dietetico che rispettasse determinati criteri qualitativi (orari dei pasti e composizione dei medesimi).
Tre anni dopo, nel 1994, la Rizzoli BUR pubblicava la versione divulgativa del metodo, le cui regole venivano così esposte in modo comprensibile a tutti. Ne riporto alcuni passi: “l’organismo non funziona sempre alla stessa maniera nell’arco della giornata, cosicché anche il modo in cui viene “smistata” l’energia proveniente dai cibi varia in continuazione. In alcuni momenti si è più cicale, dunque, in altri più formiche; e questo avviene ogni giorno alla stessa ora, visto che quei cambiamenti si ripetono praticamente immutati secondo un ciclo che ha la durata proprio di 24 ore.” … “se un pasto può essere più abbondante degli altri, quello sarà sicuramente il pranzo, visto che cade nel momento in cui l’organismo è maggiormente in grado di smaltire gli alimenti.” … “i pasti più abbondanti vanno consumati, perché si eviti che portino a ingrassare, durante il giorno, quando l’organismo ha maggiore disposizione a bruciarli; la cena serale, inoltre, deve essere contenuta nelle quantità, e sufficientemente distanziata dal sonno. Durante la notte, inoltre, va evitato ogni consumo di cibo.”
Stranezze, per i più. A partire dal 2010, però, vengono pubblicati i primi lavori scientifici internazionali sui rapporti fra tempi dell’alimentazione e peso corporeo. Così, uno studio coinvolgente 420 pazienti a regime alimentare controllato dimostra che lo stesso pranzo, se consumato prima o dopo le ore 15.00, determina rispettivamente una maggiore o minore perdita di peso; un altro studio dimostra che è preferibile, ai fini del dimagrimento, consumare il pasto più abbondante a pranzo, e un altro ancora che l’astensione dal consumo di cibo durante la notte è fondamentale ai fini del mantenimento del peso.
Tutte conferme a quanto sostenuto dalla Cronodieta da oltre vent’anni. Ma perché, a seconda che l’orario di assunzione degli alimenti sia uno piuttosto che un altro, le conseguenze sul peso sono diverse? La risposta si trova proprio nel fatto che “l’organismo non funziona sempre alla stessa maniera nell’arco della giornata, cosicché anche il modo in cui viene “smistata” l’energia proveniente dai cibi varia in continuazione”. Intendiamoci: non che in relazione all’orario della giornata l’uomo possa creare o distruggere l’energia; ciò che varia è l’assorbimento degli alimenti e, quindi, la quantità di calorie che vengono utilizzate ai fini metabolici.
E a questo punto si impone un approfondimento. Iniziamo col dire che pressoché la totalità dell’energia necessaria per vivere noi la ricaviamo dagli alimenti, i quali hanno, al loro interno, un contenuto energetico che esprimiamo in calorie [in nutrizione si utilizza la kilocaloria, o grande caloria, che corrisponde all’energia necessaria per innalzare di 1 °C (da 14,5 a 15,5) la temperatura di un kg di acqua distillata alla pressione di una atmosfera].
Per calcolare le calorie contenute in un determinato alimento (gross energy) lo si brucia dentro la bomba calorimetrica, uno strumento nel quale Il calore prodotto dalla combustione viene assorbito da una massa di acqua di cui si osserva l’aumento della temperatura.
L’uomo, però, non è una bomba calorimetrica, non brucia il cibo ma lo digerisce e lo assimila eliminandone costituenti ancora provvisti di energia, sicché la quota di energia (le calorie) che egli utilizza non corrisponde al totale dell’energia contenuta in ciò che mangia, ma a una sua parte.
Alla luce di queste considerazioni, un chimico statunitense, Wilbur Olin Atwater, agli inizi del 1900 condusse uno studio per stabilire quante calorie, di tutte quelle contenute nel cibo, venissero utilizzate dall’uomo. Alla gross energy dei vari alimenti sottrasse l’energia derivante dalla combustione, sempre nella bomba calorimetrica, delle feci e delle urine emesse dopo l’introduzione di quegli stessi alimenti, e, dopo aver effettuato un totale di 50 esperimenti su tre soggetti maschi di 33, 29 e 22 anni, propose i fattori da utilizzare per calcolare l’available energy, come egli la definì, ovvero l’energia utilizzabile, disponibile: 4 kcal per 1 grammo di carboidrati, 4 kcal per 1 grammo di proteine, 9 kcal per 1 grammo di grassi.
Così, da allora fino ai nostri giorni, per calcolare questa energia, che oggi viene chiamata energia metabolizzabile (metabolizable energy), i grammi di carboidrati e di proteine di cui è costituito un alimento vengono moltiplicati per 4, per 9 si moltiplicano i grammi di grasso, poi si sommano i prodotti ottenuti.
È il metodo col quale vengono conteggiate le calorie apportate dalle diete, o le calorie di tanti prodotti che acquistiamo: il valore energetico in essi indicato non coincide, come erroneamente molti pensano, con la totalità delle calorie intrinsecamente presenti nei corrispondenti alimenti – dati, questi, oggettivi, pur se medi -, ma con quella parte di energia alimentare che verrebbe metabolizzata.
Ho usato il condizionale non a caso: che ci sia qualcosa che non va nel calcolo precedentemente esposto, infatti, sono in molti a pensarlo. Innanzitutto per l’esiguo numero di soggetti (soltanto tre) che parteciparono alla sperimentazione del 1910; un campione così ristretto consente di trarne conclusioni definitive, scientificamente accettabili, valide in generale? È possibile che l’energia metabolizzabile di un alimento sia sempre la stessa, indipendente dal sesso, o dall’età? Uguale in un bambino e in un vecchio? O che sia indipendente dai “tempi” del consumo alimentare? E poi, tutti abbiamo esperienza di quanto diversi possano essere, in individui diversi, gli effetti dello stesso quantitativo di cibo sul peso corporeo; come si concilia questo dato di comune osservazione con il concetto di una energia metabolizzabile invariabile?
Oggi da più parti viene evidenziata la debolezza del lavoro di Atwater e se ne chiede la rivalutazione critica. In un articolo recentemente apparso su una nota rivista scientifica di nutrizione, gli autori letteralmente scrivono: “I valori attuali per l’energia metabolizzabile dei macronutrienti sono stati proposti nel 1910. Da allora, tuttavia, gli sforzi per rivedere questi valori sono stati praticamente assenti, creando una necessità cruciale per effettuare un’analisi critica della metodologia sperimentale e dei risultati che costituiscono la base di questi valori.” (*Fonte e testo originali in fondo all’articolo)
Già nel 1955, del resto, Elsie May Widdowson, del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università di Cambridge, anch’ella autrice, come Atwater, di un testo sulla composizione degli alimenti (McCance & Widdowson, The Chemical Composition of Foods, 1940), scriveva che “i tentativi compiuti per valutare il valore energetico dei cibi potevano essere descritti soltanto come una commedia degli errori”, e concludeva con questa confessione: “Tutti noi abbiamo fatto errori, anche Atwater. Ma possiamo consolarci pensando che l’uomo che non commette errori solitamente non fa nulla. Certamente non fa tabelle degli alimenti”.
Nello stesso articolo, poi, la Widdowson sottolineava che, contrariamente a quanto riportato da Atwater e Bryant, i quali avevano trovato variazioni molto piccole fra i tre uomini esaminati, gli studi sulla digestione e l’assorbimento dei nutrienti della dieta mostravano, normalmente, “ampie variazioni fra una persona e un’altra”.
“Se Atwater avesse studiato più individui”, continuava la Widdowson, “sicuramente avrebbe scoperto questo”. (**Fonte e testo originali in fondo all’articolo)
Per uno stesso quantitativo di calorie introdotte, quindi, l’energia metabolizzabile differisce ampiamente fra i vari soggetti. Questo fenomeno, insieme con le differenze interindividuali riguardanti la spesa energetica, è alla base di quella variabile che molti autori indicano come costo calorico del peso, parametro che corrisponde al numero di calorie che è necessario introdurre con gli alimenti per ingrassare di un chilogrammo.
Responsabile della diversa sorte energetica degli alimenti introdotti è l’assetto dei sistemi nervoso e ormonale (endocrino) dell’organismo. Attraverso il controllo esercitato sull’assorbimento e sul metabolismo dei nutrienti, infatti, questi due sistemi svolgono un ruolo fondamentale nella determinazione dell’energia metabolizzabile.
Se l’assetto neuro-ormonale determina la quota di energia metabolizzabile, tutto ciò che è in grado di far variare il primo può, di conseguenza, modificare anche la seconda.
Può agire in tal senso, ad esempio, la composizione dei pasti, considerato che l’alimentazione, il sistema nervoso e il sistema endocrino sono inseriti in un circuito caratterizzato dalla bidirezionalità delle rispettive influenze (le scelte alimentari sono influenzate dai sistemi nervoso e ormonale i quali, a loro volta, sono influenzati nella loro funzione dalla qualità e quantità degli alimenti introdotti – Cronodieta, Vimarangiu, 2015, pag. 110-133); può agire in tal senso l’orario dei pasti, tenuto conto che i sistemi nervoso ed endocrino non presentano il medesimo assetto nel corso delle 24 ore, ma si modificano seguendo precisi ritmi biologici, sicché non è uguale, ai fini dell’energia metabolizzabile, mangiare lo stesso alimento in un momento della giornata piuttosto che in un altro.
Di questo ho parlato nella Cronodieta, proponendo, fin dal 1991, un approccio diverso e innovativo al problema del sovrappeso. Oggi, per la collana Vimarangiu, il libro CRONODIETA riunisce in un unico volume le versioni originali del metodo, quella divulgativa e quella scientifica (amazon.it: cronodieta); la versione divulgativa, inoltre, è di prossima pubblicazione in lingua spagnola.
Il decalogo della Cronodieta
1. I pasti devono essere cinque: una prima colazione dopo il risveglio, uno spuntino di metà mattino, un pranzo, una merenda pomeridiana e una cena.
Tra questi, il pranzo deve essere il principale, subito seguito, per consistenza, dalla cena. La prima colazione e lo spuntino di metà mattino hanno il compito di fornire un apporto energetico sufficiente ad affrontare la giornata, e per questo almeno uno dei due pasti non deve essere né misero né frettoloso: complessivamente devono includere, accanto al tè o al caffè, del latte o uno yogurt magro e un derivato di cereali come pane, fette biscottate, biscotti, fiocchi d’avena e così via.
La cena, nella quale non bisogna mai eccedere con le quantità, non deve avvenire a ridosso dell’addormentamento. Gli appuntamenti con il cibo non vanno saltati; qualora ciò avvenga, in ogni modo, non sono ammessi “recuperi” nell’assunzione degli alimenti al di fuori dell’orario stabilito per ognuno.
2. Gli orari dei pasti, così come la loro quantità e la composizione, devono essere scelti anche in base alla tendenza individuale a “carburare” di più la mattina o il pomeriggio: il tipo mattiniero, per esempio, farà una colazione abbondante subito dopo il risveglio, mentre quello notturno potrà ritardare l’assunzione dei primi alimenti solidi allo spuntino di mezza mattina. Allo stesso modo il tipo notturno posticiperà tutti i pasti rispetto al tipo mattiniero, spostando l’assunzione degli alimenti verso orari più lontani dal risveglio.
3. I cereali e i loro derivati (pane, pasta, riso, semolino, biscotti, cracker, fette biscottate, fiocchi di avena o di mais, eccetera) devono essere consumati nella prima parte della giornata: entro le quindici, insomma. La stessa regola vale per i legumi (ceci, fagioli, lenticchie, e così via) e per le patate.
Per i primi piatti, a pranzo, la quantità da non superare è quella contenuta nel giro interno di un normale piatto di servizio.
Il pane può essere mangiato sia a colazione sia a pranzo; in questo secondo pasto, però, il suo consumo dovrà essere modesto (non più di una fetta) e nel caso del sovrappeso a mazzo di fiori andrà riservato ai soli giorni in cui sono presenti cibi proteici e verdure. Niente pane a cena.
4. Tra i cibi a base di carboidrati, sono da evitare quelli sottoposti a suddivisione fine o eliminazione delle fibre. Allo zucchero di barbabietola, perciò, è da preferire quello di canna, e per lo stesso motivo ai cereali senza crusca quelli integrali. Riso e mais, inoltre, sono più indicati di patate, pane e pasta, che si digeriscono più velocemente per le ridotte dimensioni delle loro particelle di amido. Qualche dolce da forno potrà essere consumato a colazione, ma creme e prodotti di pasticceria sono sicuramente da evitare.
5. La carne, il pesce, le uova o i latticini devono costituire i principali componenti del pasto serale, mentre non vanno consumati a pranzo. Queste fonti proteiche devono essere tutte presenti nell’arco di ogni settimana, con una alternanza che porti però a far prevalere il pesce e la carne sulle altre.
Nel solo sovrappeso a mazzo di fiori, tre volte a settimana si possono consumare, in sostituzione dei primi piatti, cibi proteici anche a pranzo. Per le quantità degli alimenti a base di proteine, basterà ogni volta limitarsi a una porzione regolare: il buon senso è sempre la migliore delle bilance.
6. Le verdure, da scegliere tra quelle di stagione, devono essere presenti nei due pasti principali: le più ricche di zuccheri (carote, funghi secchi, carciofi, barbabietole, broccoli, cavoli di Bruxelles, verze, rape, pomodori) vanno consumate a pranzo e non a cena; tutte le altre, invece, possono essere assunte indifferentemente nei due pasti principali. Il consumo degli alimenti di questa categoria è praticamente libero nelle quantità: solo nel caso del sovrappeso a mazzo di fiori, e per le verdure più zuccherine, occorrerà fare una certa attenzione alle dosi.
7. La frutta – pure questa di stagione – va mangiata entro le ore diciassette-diciotto: può integrare dunque la prima colazione o il pranzo, ma deve essere evitata a cena. L’ideale, in ogni modo, sarebbe utilizzarla per lo spuntino di metà mattina e per la merenda pomeridiana, in quest’ultimo caso preferendo però i frutti meno zuccherini (ananas, mandarini, pompelmi, fragole, ciliegie, angurie, pesche, meloni, lamponi).
La frutta deve essere introdotta intera, e non sotto forma di succhi o spremute, che risultando più digeribili producono una maggiore stimolazione della secrezione di insulina. Solo nell’uva le due modalità di assunzione non danno risposte diverse, e questo a causa dell’elevato contenuto di zucchero e della scarsa presenza di fibre. In una giornata, la quantità giusta di frutta è orientativamente quella corrispondente, come volume, a due mele di medie dimensioni. La frutta sciroppata va evitata.
8. I condimenti non devono essere usati in maniera smodata: soprattutto a cena, si dovrà fare attenzione alla loro quantità; ma questo non significa che occorra abolirli: vanno privilegiati i grassi vegetali (in particolare l’olio di oliva e gli oli di semi pressati a freddo) rispetto a quelli animali come burro, strutto o lardo.
9. Vino, birra e caffè non dovrebbero essere consumati durante un pasto ricco di carboidrati, soprattutto in autunno.
10. Anche l’attività motoria è necessaria per non ingrassare. Ma non è necessario pagare e soffrire, per svolgerla: chi l’ha detto che l’esercizio fisico si fa solo in palestra? ? inutile passare ore sulla cyclette se poi, davanti alla prospettiva di scendere dal primo piano al piano terra, si preferisce aspettare l’ascensore piuttosto che affrontare poche scale a piedi. Una buona camminata ogni giorno vale molto di più, ai fini del peso, che un’attività fisica magari intensa, ma sporadica.
Importante. Le regole della cronodieta si applicano bene alle persone il cui sovrappeso non si associa ad altri disturbi. Una valutazione più accurata delle necessità individuali in fatto di nutrizione si rende necessaria quando sono presenti alterazioni negli esami di laboratorio o, più in generale, problemi di salute: in questi casi occorre rivolgersi a un medico ed eventualmente eseguire, su sua indicazione, alcuni test nutrizionali.
Lavori citati nel testo
•?* “Calculating the metabolizable energy of macronutrients: a critical review of Atwater’s results”, MJ Sanchez-Pena, F Marquez-Sandoval, AC Ramirez-Anguiano et al, Nutr Rev (2017) 75 (1): 37-48: “The current values for metabolizable energy of macronutrients were proposed in 1910. Since then, however, efforts to revise these values have been practically absent, creating a crucial need to carry out a critical analysis of the experimental methodology and results that form the basis of these values. …” –
•?** “Assessment of the Energy Value of Human Foods”, EM Widdowson, Symposium Proceedings, 1955: “… the attempts which people have made to assess the energy value of human food can only be described as a comedy of errors … Atwater & Bryant found very little variation among their three men as regard their ability to digest and absorb the nutrients in their diet. It looks as though they were very fortunate in this respect, for the usual findings in work of this nature on human beings are wide individual variations from one person to another. If Atwater had studied more individuals he would undoubtedly have discovered this. … My conclusion must be confession. We have all made mistakes, even Atwater. But we can console ourselves by thinking that the man who makes no mistakes does not usually make anything. He certainly does not make food tables.”
Mauro Todisco
Pubblicato il 4 Marzo 2018 sul sito: bellissimamente.it